La Gioconda monalisa

Il Mito del Furto della Gioconda

Il mito del furto della Gioconda, che mise in agitazione due nazioni per diversi giorni e di come fu riportata in Italia nel modo più semplice che ci poteva essere.

Come fu rubata la Gioconda.

Il mito di Monna Lisa del Giocondo, moglie di un ricco mercante di seta fiorentino nasceva il 21 agosto 1911, quando l’opera di Leonardo (olio su una sottile tavola di pioppo, dipinto tra il 1503 e il 1506, 53 x 77 centimetri) veniva rubata dal Louvre di Parigi. La Gioconda uscì dalle stanze del museo come un capolavoro qualunque, sotto il cappotto di un italiano emigrato a Parigi, per farci ritorno quasi tre anni più tardi, nel gennaio 1914, con tutti gli onori, trasformata ormai in un mito senza tempo. Capace di incantare (e ispirare) artisti e scrittori tra loro assai differenti, da Duchamp al graffitaro Banksy, da Baudelaire a Dan Brown.

La cronaca del furto che cambiò il destino di Monna Lisa è assai semplice. 

Almeno dal punto di vista poliziesco: di fatto un vero flop investigativo. Ma gli effetti rimangono tuttora dirompenti se a Firenze ancora ci si interroga sulla possibile sepoltura di Monna Lisa.

La sera di domenica 20 agosto 1911, un trentenne minuto con grandi baffi neri, si fa rinchiudere in un ripostiglio del museo e vi trascorre la notte. Alle 7.20 del mattino, quando la guardia addetta alla sorveglianza del Salon Carré si allontana, coglie l’attimo: toglie la Gioconda dalla cornice, la nasconde sotto il cappotto e con calma si allontana, non prima d’aver chiesto aiuto a un innocente idraulico per uscire dal museo, visto che la maniglia del portone d’ingresso era sparita e dopo essersi permesso addirittura il lusso di sbagliare tram per la fuga, alla fine sceglierà un comodo taxi. Alle 8.30, il misfatto è compiuto. Ma nessuno si sarebbe accorto di niente fino a martedì (il lunedì era giorno di chiusura del Louvre) anche perché all’epoca i quadri venivano spesso rimossi per essere fotografati: «Quando le belle donne non sono con i loro amanti, vuol dire che stanno posando per il loro fotografo» fu la risposta che ricevette il copista Louis Beroud che per primo notò l’assenza.

 I rilievi, una volta scoperto il furto (verso le 11), furono effettuati sulla cornice lasciata in un angolo dal ladro.

 A suo tempo donata dalla Comtesse de Bearn. Ma fin dall’inizio la polizia sembrò più che altro girare a vuoto (si sarebbe scoperto tra l’altro che le uniche misure di sicurezza prese fino ad allora erano state l’addestramento al judo di un gruppo di guardie). Mentre crescevano polemiche, sospetti (l’estrema destra di Action Française accusò la lobby ebraica) e soprattutto i visitatori che si accalcavano davanti alla cornice vuota. Tra questi Franz Kafka, in viaggio per l’Europa con l’idea di scrivere guide per turisti low cost. Intanto La Gioconda faceva il grande salto: dalla cultura alta ma per pochi a quella, più di basso profilo, ma per tutti. Trasformando quello che Somerset Maugham avrebbe poi definito «il sorriso insipido di una ragazza perbene e vogliosa» in griffe.

 Il colpevole (vero) tardava però ad essere scoperto.

Ma qualcuno viene comunque arrestato: è il poeta Apollinaire, accusato da un amante, Honoré Géry Pieret, di aver acquistato da lui, insieme con un amico artista chiamato Picasso, statuette antiche rubate appunto al Louvre. L’accusa si rivelerà una meschina ripicca, ma più tardi si scoprirà che quelle statuette sarebbero addirittura servite come modello per Les Demoiselles d’Avignon («Guardate le orecchie» dirà Picasso). Poi, più niente. Nel frattempo un ritratto di Raffaello ha sostituito La Gioconda sul muro del Louvre, ma nel dicembre del 1912 una lettera firmata «Leonardo» viene recapitata a un antiquario fiorentino, Alfredo Geri: «Il quadro è nelle mie mani, appartiene all’Italia perché Leonardo è italiano». Il ladro dice di volerlo restituire alla modica cifra di 500.000 lire «per le spese». L’incontro decisivo avviene a Firenze, al terzo piano della pensione «Tripoli» (esiste sempre e oggi si chiama «La Gioconda») dove Geri porterà anche il direttore degli Uffizi Giovanni Poggi. La tavola è in una valigia sotto il letto, nella stanza di Vincenzo Peruggia (italiano emigrato in Francia, professione imbianchino): è lui il ladro. Un ladro che consegna subito La Gioconda ai due perché ne verifichino l’autenticità, e che nell’attesa va a spasso per la città. Una passeggiata presto interrotta dall’arresto.

Al processo che sarà celebrato in Italia (negli stessi giorni dell’assassinio di Sarajevo).

 Peruggia verrà definito «mentalmente minorato». Lui si difenderà dicendo di aver voluto così vendicare l’Italia dei furti subiti da Napoleone. Suscitando persino qualche fremito patriottico («peruggismo») e dichiarando di aver passato due anni «romantici» con La Gioconda sul tavolo di cucina. Alla fine verrà condannato a un anno e 15 giorni di prigione (poi ridotti a sette mesi e 15 giorni). Scarcerato, si sposerà e aprirà un negozio di vernici nell’Alta Savoia. Morirà nel 1925 (la sua unica figlia, Celestina, è scomparsa lo scorso marzo) portando con sé le vere ragioni del furto della Gioconda (più tardi si parlerà di furto commissionato a Peruggia da un truffatore argentino, il marchese di Valfierno, per vendere sei copie del quadro agli americani, come Totò con la Fontana di Trevi). Ma è quasi certo che La Gioconda venne rubata perché aveva le misure giuste per sparire tranquillamente sotto il cappotto di Peruggia.


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